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Pecora

Sotto la pergola
vaga una pecora,
bela serafica
senza una regola.

(Tredozio, Estate 2011.)

sfiorare, sfiorire

al jazz, alle sue cantatrici calve

Sarebbe dunque l'ultima parola? Troppo scaltro per supporlo. Pure la domanda si articola in qualche modo. Il modo unico in cui non potrebbe non articolarsi. Unico da lui conosciuto, sebbene a tratti, come sempre. Unico da lui avallato, unico rifiutato. E' dunque l'ultima parola? Potrebbe esserlo. Potrebbe pronunciarla come se lo fosse. E' poi tanto importante che lo sia? Ultima, penultima, parola o gesto. Può davvero pronunciarla come se lo fosse? La domanda, se poi si tratta di una domanda, è irrevocabilmente posta, o, che è lo stesso, mal posta. Può ancora fingere. Meglio sarebbe dimenticare. Ma dimenticare non può. Ultima, non ultima, trattenuta finché diventi l'ultima, infine. Infine, direbbe, ma.

Eccola. Insieme a tutti gli altri. Diversa da tutti gli altri. Come il giorno che la conobbe? Non lo ricorda. Uguale a tutti gli altri. Sin dal giorno in cui la conobbe, se mai la conobbe. Non lo hanno abbandonato. Non può saperlo. Com'era prima di quel primissimo istante? Com'è? Allungando la mano sopra il tavolo, può arrivare a sfiorare la sua. Gioca un po' con la parola. Sfiorarla, sfiorirla. Poi basta. Decide che anche quel gioco non gli appartiene. Non gli è mai appartenuto. Come anche il resto di questa, come dire: storia?

Tuttavia non può non farci i conti. Dal momento che è anche la sua storia. Non gli appartiene. Non del tutto, direbbe, se fosse appena un po' più cauto. E' una storia? Appena. Sembrava che lo fosse. Ne era certo, il giorno in cui primo lo sorprese un pensiero di lei. Sempre lo stesso pensiero. Pensato poi in molti modi diversi. Fino a questo. Che forse non è più nemmeno un modo del pensiero. Non lo vorrebbe tale. Non vorrebbe vederlo svolgersi così. Farsi spazio. Un fatto tra i fatti. Come si dice, in un modo o nell'altro.

Dov'è adesso? Dov'è lei, poco prima sfiorata? Andata a sfiorire in qualche posto. Nella toilette, ad esempio. Davanti allo specchio. La immagina. Come le interrogazioni l'abbiano sfiorita. Interrogazioni di chi? circa che cosa? Non può saperlo. Proprio lui che non cessa di interrogarla. Allora lei ritorna. Uguale. Tranne che per un particolare. Uno qualsiasi. La manica del maglioncino ripiegata all'esterno. La manica destra. Torna a sedersi. Sorride. A lui. Agli altri.

Li osserva. Ascolta le voci. Quando sono arrivati? Non lo ricorda. Di una cosa è certo: non sono sempre stati lì. Devono essere arrivati uno alla volta, in quei primissimi istanti. Si è trattato di distrazione. In un certo senso. Ciascuno ha occupato il suo posto. Ciascuno ha fatto la sua parte. Non c'è bisogno di ricordarlo. Qualcuno, più di una volta, ha fatto finta di andarsene. Dove? Sarebbe forse più opportuno domandarsi come. Ma in quei primissimi istanti.

Confida nel fatto che si tratti proprio di una storia. Come seguire un pensiero. Raccolto un giorno. Fatto suo, avrebbe detto. Non gli appartiene. Non ha mai potuto abitarlo. Irrequieto fin dall'infanzia. Sognante. Non più. Non ha importanza. Ad una parola può seguirne un'altra. L'ultima. In ogni istante. Sin dai primissimi istanti di quella che sarebbe potuta diventare. Non lo ricorda.

Ne sono entrati altri due. Il vecchio indossa un impermeabile color avorio. Parlano del tempo. Distingue qualche parola. Nebbia. Umido. Poi si siedono. Stesso tavolo. Chiamano il cameriere e ordinano da bere. Il solito. Il giovane si china sul tavolo. Tiene il capo tra le mani. Fuma. Come si chiamano? Ha importanza? Potrebbe averne. Decide allora, un pò ingenuamente, che si chiamino come lui. Decide che d'ora in poi si chiamino tutti inappellabilmente come lui.

A tratti la sente cantare. Come se ce ne fosse un'altra. Proprio come se gli fosse sfuggito qualcosa. E' sempre così. Non potrebbe fare di meglio. Canta. Canta di un qualunque autunno, in un parco qualunque. Poi la voce diventa altro. Un brusio qualunque. Deve essergli sfuggito. Che cosa?

Le fa male la testa. Lo dice. Tornerebbe volentieri a casa.

Tutto può andare avanti per dei giorni. Non per sempre comunque. Porta il bicchiere alla bocca. Beve. Posa il bicchiere sul tavolo. Per giorni interi. Li conta. Si interrompe. Comincia da capo. Si interrompe di nuovo. Ogni cosa a suo tempo. A casa.

Niente di ineluttabile. Vorrebbe allora introdurre qualcuno in questa storia. Dire, non posso fare altrimenti. Cavarsela, in qualche modo. Così accade talvolta. Come se si trattasse di una storia, dopotutto. Ma questa volta no. Nessuno. Nessuno che non sia già lui, o lo sia stato. Nessun altro che lui. Anche l'ultimo arrivato. Questo. Appena entrato. Lo percepisce. E' dietro di lui. In quei primissimi istanti, o poco dopo, si sarebbe voltato. Avrebbe cercato conferma. Qualche minuto di esitazione. Poi insieme a tutti gli altri. Con devozione. Con affetto. Con stanchezza.

Di nuovo una canzone. La stessa. E con la canzone, le mani. Dove più manifesti sono gli anni di lei. Il suo scontento. Così canta. Del solito parco. Del solito lampione. Di una coppia di amanti. Di un autunno qualunque. Canta. Come se fosse ancora lì. Con la sua voce roca. Per lui. Per gli altri. Per ciascuno di quelli che lui è stato. Per alcuni di quelli che lui è.

La conosce? Sufficientemente. Come, ad esempio, si conosce un profumo. La riconosce infatti. Potrebbe farne cenno a qualcuno. Uno che non sia già lui. O che non lo sia ancora. Potrebbe dirgli questa è la sua voce. Questa è lei. Così si volta. Prima che sia troppo tardi. E lo dice. A qualcuno. Qualcuno che c'è e non c'è. Poi si volta di nuovo. Non attende risposta.

Innamorato ancora dei contorni. Sfumati o no. Dei margini da cui la osserva e si osserva. Dei passaggi. Per poco. Si direbbe. Si dice. Innamorato.

Qualcuno nel frattempo gesticola in fondo alla sala. Ogni gesto è lo stesso gesto. Reclama di essere agito. Così questo. Che lui non raccoglie. Come sempre. Dal fondo della sala. Un gesto. Se quello è davvero il fondo. Se oltre quelle luci c'è davvero la notte. E la nebbia. Non lo sa. Non ricorda. Ascolta le voci. Di lei che canta dell'autunno qualunque. Di lei che ha mal di testa e vorrebbe andarsene. Le voci e i rumori. Di lei che alla toilette cerca qualcosa nella borsa. Una cosa qualsiasi. Una testimonianza. Di cosa? Di quello che non può cessare di rappresentare. Non ora. Assolutamente no.

Gli giungono le voci di quei due. Non parlano più del tempo. Le parole sono altre. Precipitato, dicono. Aeroplano o cosa? Ha la sensazione di saperlo. Da sempre. Dal prima e dal poi di ogni prima o poi. Altre parole. Stessi gesti. Tutto reclama di essere detto. Anche l'ultima parola. E prima di quella la penultima. E prima ancora altre parole. Altre parole. Fin dai primissimi istanti. Fin da quegli irrinunciabili istanti. O forse no. Non così presto. Non già da allora.

Cos'era in principio? Cos'è? Una domanda è una domanda e qualcos'altro. Qualcosa che non è una risposta. O la sua possibilità. Non ancora. Qualcosa che non è una domanda. Né una cosa in più. Né una cosa nel mezzo. Si direbbe piuttosto il mezzo stesso. Lo direbbe. Dice. Ma.

I poster alle pareti. Il fish-eye. Ne farebbe volentieri a meno. Uovo di luce che accoglie un corpo. Nudità. Beninteso. Sottinteso. Le mani dell'altra. Mani nei capelli. Sigaretta tra l'indice e medio. Dopo le pose. Un po’ di vino? Il cliché. O almeno questo immagina. Lui che non può essere altro. Lei che non può altro che esserci. Per cosa? Direbbe. Per quei primissimi istanti. Per discostarsene. Per non rinunciarci. Non proprio adesso. Ultima parola? Ultima. Davvero.

Cosa ha sottratto a quei primissimi istanti? Alla pena di quegli anni. Senza mai volgere lo sguardo alle nuvole. Senza sapere nulla. Di tanto in tanto qualcuno. Da dove? Chi altro, piuttosto. Di nuvole e di pioggia. Di qualcosa che precipita. Non lo ricorda. Uno. Due. Tre. Riprende a contare. Quattro. Cinque. Come pregando. Per nessuna grazia. Per un’ultima ricognizione. Ogni cosa deve essere a suo posto. Ordine delle cose.

Come in un rito sacrificale. Immolazione di ogni gesto. Restituito ad un prima che non conosce origine. Compiuto. Voglio andare, ripete. Semplicemente. Andare non è andar via, tornare. Per chiunque la attenda. Come desiderando. Fingendo un desiderio. Uno ancora. Per chiunque se ne sia dimenticato. Di lei e della sua canzone.

Jung, ma non quello

Cosa posso dire del mio amico Jung,
che ha il nome del più famoso Gustav?
Compriamo mele avvelenate e dolci.
Ogni mattina rimettiamo gli orologi
alle dieci di sera in punto
e accapo

allestimento per un troubadour

Ieu sui Arnautz qu’amas l'aura
e chatz la lebre ab lo bou
e nadi contra suberna.
E la vede. Gli sembra di vederla. La moltitudine. E lei nella moltitudine. Della sua moltitudine. Senza fretta. In giri sempre più lenti. Prossima, lontana. E poi di nuovo. La chiamerebbe allora. Con voce rubata alle carte. Alle sue carte ammutolite. Sul tavolo. Nel gesto in cui la vede allontanarsi.
Non ci sono figure sulle carte. Né scrittura, né segni. Le carte sono tarocchi bianchi. Allora prega. Congiunge le orecchie. Si ascolta pregare. Pregarla. Che si avvicini. L’anima affannata. Che sfiori appena le sue carte. Un prato. Le dice. Le promette. Un prato. Per te, le dice. Con voce rubata al prato.
Non ci sono stelle. Chi potrà addormentarsi in questa notte senza stelle? Senza una piccola stella. Chi potrà dormire? Nessuna stella. Perché non ci sono le stelle? Neanche una stella stanotte. Chi, chi potrà addormentarsi?
E dunque sceglierà il ramo più alto. Per arrampicarsi. Lo sceglie. Dice, lui. Si arrampica. Ho scelto questo ramo. E poi... poi si interrompe. Gli manca qualcosa. Si interrompe. Si interrompe affinché manchi qualcosa. Il balcone, direbbe. Aggiungerebbe. Come può soltanto. Aggiungere. Come può soltanto. Aggiungere. Il balcone.
Ed ecco allora un balcone. Un balcone di cartapesta. Tempestata di zaffiri. Un balcone verniciato. Un balcone d’argento ossidato. Un balcone di sandalo. Con balaustre in vetro. Un balcone a vapore. Un balcone d’acqua. Il riflesso di un balcone. Con balaustre in marmi policromi. Un balcone di insonnia. Un balcone di ferro battuto. Un balcone insaponato. Con balaustre in petalo. Un balcone di cera. Un balcone illustrato. Il progetto di un balcone. Con balaustre di nuvola. L’ ipotesi di un balcone. Un balcone come deve essere. Un balcone come potrebbe essere. Un balcone come non è. Un balcone come non se ne fanno più. Un balcone di pietra focaia. Un balcone di inchiostro. Con balaustre in lacrima. Un balcone di meteorite. Un balcone di silenzio. Con balaustre in pausa. Un balcone...Un balcone...Un balcone... infine... di balcone. Con balaustre (infine?) di balaustra.
Così la scena. Un ramo. Delle carte. Una promessa. Aggiungere. Un balcone. E poi una torre. Dei merli. Una foglia sul ramo. Caduta. Per terra. Sul ramo. Caduta. Per terra. Una foglia. sul ramo. Per terra. Una foglia.